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L'imperatore che vinse un’Olimpiade

Lucio Domizio Enobarbo, imperatore di Roma dal 54 al 68, anno in cui morì suicida, non ha mai goduto di una buona fama attraverso i secoli. Eppure questo tiranno tanto esecrato dagli storici fu così caro al popolo romano che molti anni dopo la morte qualcuno portava ancora fiori sulla sua tomba e che il suo ricordo si perpetuava alla fine dell’Impero sui medaglioni contorniati, qualcosa di paragonabile alle nostre medaglie celebrative. Del resto, si sa: la Storia la scrivono i vincitori, e Nerone il suo duello con il Senato lo perse. Perché meravigliarsi, allora?
Così Lucio Domizio fu privato anche dei suoi innegabili meriti, tra i quali un discreto talento artistico e una grossa passione per lo sport. Tra le peculiarità di questo personaggio atipico, erede di una cultura ellenizzante che dal suo grande avo Giulio Cesare gli era giunta attraverso il trisnonno Marco Antonio, la bisnonna Antonia e il nonno Germanico, ci fu infatti quella di figurare nell’elenco dei vincitori olimpici.
Non che primeggiare nei Giochi più famosi fosse un desiderio del tutto nuovo per la famiglia imperiale. Già Tiberio, prozio di Nerone (nella centonovantaquattresima Olimpiade del 4 a.C.), e poi Germanico (nella centonovantanovesima del 17 d.C.) avevano trionfato nella gara delle quadrighe. In realtà, però, nessuno dei due aveva partecipato fisicamente alla corsa: vincitore era infatti considerato il proprietario del carro e non l’auriga. La novità era che Nerone aspirava al successo personale, conseguito sul campo e non per interposta persona. Che poi, per la prima volta fosse l’imperatore regnante a partecipare alla competizione, aggiungeva fascino all’intera questione.

I “Neronia”
Lucio Domizio non giunse impreparato alla trasferta greca. Sin dal 60 aveva istituito a Roma un appuntamento sportivo e artistico, modellato sull’esempio ellenico e così importante da essere ricordato su alcune monete dell’epoca. Adeguandosi, con entusiasmo probabilmente molto limitato, alla tipica tendenza romana alla periodizzazione in lustra, aveva stabilito una cadenza quinquennale. Con scarsa modestia aveva poi permesso che i Giochi venissero conosciuti come Neronia. Si trattava di un certamen imponente, diviso in concorsi artistici, ginnici ed ippici, del tutto nuovo per Roma, dove le attività atletiche erano da sempre guardate con sospetto. Il fatto che per l’intera durata dei Giochi i concorrenti dovessero vestire abiti greci o addirittura gareggiare nudi come ad Olympia, non contribuì certo a placare le polemiche, tanto vigorose che se ne trova eco persino a livello linguistico. A proposito di questo aspetto del regno neroniano, Svetonio usa infatti per quattro volte la parola agón, di derivazione greca e mai più adoperata nell’intera opera dello storiografo.
Nerone non si curò più di tanto dello scalpore provocato tra i benpensanti e, nella seconda edizione del 65, non disdegnò di cimentarsi egli stesso, pur se nelle sole gare artistiche, con un’esibizione a Pompei.
Quanto all’aspetto più propriamente sportivo, il principe non se la sentì invece di sfidare sino in fondo la ristretta mentalità aristocratica e limitò i suoi interventi. Ciò non gli impedì di costruire nel 61 a Roma uno splendido Ginnasio, né di correre sulle bighe nel Circo di Caligola per un selezionato pubblico di amici. Ristrutturato ed ampliato, l’ippodromo, che si trovava dove ora sorge la Basilica di San Pietro, divenne presto noto come Circus Gai et Neronis.
Nella primavera del 64, anno che precedeva la duecentoundicesima Olimpiade, Nerone ritenne giunto il momento opportuno per il progettato viaggio e si mise in moto da Napoli per la Grecia. Giunto a Benevento, cambiò di colpo idea, per cause che rimangono tuttora oscure (ma verosimilmente legate al malcontento degli ambienti vicini al Senato), e fece ritorno a Roma.
Si trattava in ogni caso solo di un rinvio e difatti i preparativi per la visita imperiale nelle province interessate (anche l’Egitto era compreso nel programma) ripresero con alacrità. In particolare, se ne trova traccia in una serie di monete che associano immagini degli dèi alle città greche in cui Nerone avrebbe gareggiato. A Corinto venne ampliato il teatro e ad Olympia, oltre alla costruzione di un arco di trionfo, il padiglione dei giudici venne abbattuto e sostituito con la residenza destinata all’imperatore. Si pose ovviamente il problema della date, perché ormai Lucio Domizio non avrebbe più potuto raggiungere in tempo la sacra piana, ma l’inconveniente non spaventò certo l’uomo più potente del mondo. Con un atto senza precedenti storici (né repliche future, per fortuna) il principe si limitò a spostare di due anni la data dell’Olimpiade. Poiché la decisione fu accompagnata da donazioni molto generose agli organizzatori, non risulta che qualcuno abbia protestato, anche se qualche anno dopo, morto Nerone, l’edizione fu declassata e tolta dalle liste ufficiali. Nihil novum sub sole.
Comunque fosse, a fine settembre del 66 la grande avventura sportiva ebbe inizio. Ad ottobre l’imperatore soggiornò a Corfù con un nutrito seguito di quasi diecimila tra soldati e cortigiani. Proprio a Corfù e poi a Nikopolis, sede dei Giochi Aziaci istituiti da Augusto per celebrare la vittoria su Marco Antonio, iniziarono le esibizioni, per ora sempre incentrate sul solo canto. Poco dopo Nerone si spostò a Corinto, dove trascorse l’inverno, e la gigantesca spedizione impressionò tanto i Corinzi da essere celebrata sul rovescio di una moneta in bronzo.
Finalmente giunse l’epoca dei Giochi. Il principe si recò ad Olympia per prendere parte a più gare e per numero di vittorie potrebbe essere annoverato tra i grandi di ogni tempo. Trionfò infatti nella gara delle quadrighe, delle quadrighe dei puledri, nel concorso degli araldi, nel tiro a dieci puledri e nelle prove per citaredi e tragedi. Roba da far invidia a Michael Phelps. Peccato solo che le ultime tre gare fossero state create su misura per lui e che durante una delle corse di cavalli Nerone, caduto dal cocchio, fosse atteso da tutti gli avversari, piuttosto preoccupati da un’eventuale sconfitta dell’illustre concorrente.
Una prestazione piuttosto incerta, dunque, anche se, a questo proposito, va sempre tenuta presente la parzialità delle cronache pervenuteci. In realtà nulla vieta di pensare che Lucio Domizio fosse davvero un ottimo auriga. Comunque fosse, oltre a quelle conquistate sul campo, Nerone fu insignito delle corone di tutte le competizioni in programma, con la formula «Nerone Cesare vince questa gara e ottiene la corona a gloria del popolo di Roma e del mondo intero a lui soggetto», che divenne in pratica quella canonica per l’intero soggiorno nell’Ellade.

Un atleta appassionato
Non appagato dalle glorie olimpiche, il principe gareggiò infatti negli altri Giochi dell’archáia periodos, il circuito antico, e cioè nell’ordine i Pitici (gli unici a svolgersi nell’anno previsto), gli Istmici e i Nemei. Le vittorie ottenute, reali o meno che fossero, diedero comunque modo all’imperatore di fregiarsi del glorioso titolo di periodoníkás, ossia di trionfatore nei quattro grandi appuntamenti tradizionali.
Il bottino complessivo fu di 1.808 corone e Nerone, sulla cui intelligenza nessun dubbio è stato avanzato neanche dalle fonti più sfavorevoli, era di certo ben conscio dell’adulazione che lo circondava. Ciononostante si preparò sempre con serietà alle gare cui partecipava e non è improbabile che l’apparente farsa rispondesse a una strategia ben definita (il viaggio tra l’altro vide Lucio Domizio proclamare la libertà della Grecia, con un atto simbolico, ma di peso enorme).

Danilo Francescano

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